Da Biasca al Lucomagno non sarebbe stato difficile incontrare qualcuno più furbo di Gasparino da Ghirone; ma sarebbe stato impossibile trovare due braccia più vigorose, due piedi più agili, un cuore più giulivo e sollecito al lavoro. Perciò la gente di Olivone e dei dintorni lo prendeva volentieri a servizio e nessuno se ne pentiva.
Ma Gasparino era curioso. Si annoiava nel dover passare la sua giovinezza ai piedi del Sosto e sognava di girare il mondo. Orfano da parecchio, quando ebbe perduto anche lo zio Bonifacio che gli faceva da padre, decise di scendere a Lugano e implorare la protezione della Madonna delle Grazie e partire poi alla ricerca d'uno di quei paesi misteriosi dei quali aveva udito parlare, ove i fiumi convogliano diamanti e gli alberi portano frutti d'oro. Un mattino dopo la Messa, andò dal cappellano e gli consegnò la chiave della sua casupola.
«Signor Curato, me ne vado perché mi sento soffocare tra le vostre montagne. Affidate la mia chiave al grande San Martino e pregatelo di vegliare sulla mia cascina fino al mio ritorno».
«Pregherò piuttosto San Martino di guardarti dalle insidie lungo il tuo cammino. Imprudente, tu non conosci i pericoli del mondo, altrimenti non saresti così sollecito di avventurarti in mezzo ad essi...».
Il degno sacerdote avrebbe forse continuato la sua predica, ma Gasparino era già partito. Leggero di bagagli e con soli trenta soldi in tasca, poteva camminar spedito e non tralasciava di farlo. Di quando in quando si fermava per salutare un amico, per ascoltare il canto di un fringuello, per mandar giù un boccone di pane con un pezzo di formaggio o una fetta di pancetta. La sera si coricò sotto le stelle poiché faceva caldo, e si addormentò senza fatica cullato dal mormorio del fiume.
L'indomani mattina si avviava verso Claro, quando scorse una masseria isolata e lì vicino una ragazza che piangeva e un cane che abbaiava. Si fece avanti e domandò:
«Che cosa c'è? Perché piangete? Dove sono i vostri genitori?».
«Ahimè» rispose la giovane contadina «che mio padre è morto da un pezzo e mia madre pure. Vivo col nonno, che questa mattina è andato a Bellinzona e mi ha affidato la casa. Ora una delle nostre due mucche, non so com'abbia fatto, ha ficcato la testa tra le sbarre della piccola finestra della stalla; volendo liberarsi, ha fatto crollare su di sé un'ala del vecchio muro e ora sta soffocando. Cosa dirà mio nonno e che cosa sarà di noi già tanto poveri?».
«Tutto qui?» fece Gasparino. «Invece di piangere, datemi una zappa, una scure e una sbarra di ferro; andrò io a liberare la bestia».
Detto fatto. Il nostro uomo si tolse la giubba, puntellò il muro diroccante con alcuni pali di fortuna, sgombrò i sassi già caduti, dissuggellò le sbarre e in meno di un quarto d'ora riuscì a liberare la mucca che si lanciò di corsa nel prato con la coda in aria ebbra di felicità. Smuovendo la grossa pietra che manteneva le sbarre, Gasparino aveva portato alla luce una specie di piccolo nascondiglio; ne tolse una borsa di cuoio vuota e un fischietto di corno come ne usavano una volta i cacciatori per chiamare il cane. La giovane lo pregò di tenerseli:
«Non posso pagare il vostro lavoro» disse «e non ho nemmeno un bicchiere di vino da offrirvi. Prendete questi oggetti; del resto essi sono già un po' vostri, poiché siete stato voi a scoprirli».
«Non ho l'abitudine di far pagare i miei servigi» protestò Gasparino. «E non so che farmene di queste cianfrusaglie!».
«Accettatele almeno in ricordo. Mi farete piacere».
«Se è per farvi piacere, le accetto. E ora addio, la mia strada è lunga ancora!».
Se Gasparino avesse avuto un po' più di sale in zucca, avrebbe pensato che in una masseria ove non vivevano che un vecchio e una povera ragazza ci poteva esser posto per un uomo come lui; e non sarebbe andato più lontano a cercare la felicità. Ma vi ho detto che non era gran che furbo; dopo aver ficcato borsa e fischietto in tasca, si allontanò. Trascorse parte della giornata a girovagare nelle vie di Bellinzona e passò la notte nei boschi del Monte Ceneri.
Verso l'aurora si rimise in cammino per raggiungere Lugano sul mezzodì. Cammin facendo egli pensava con malinconia che i suoi trenta soldi non gli avrebbero permesso grandi spese e gli venne fatto di sospirare: «Oh, se avessi cinquanta scudi d'oro!».
Di colpo sentì un peso insolito nella tasca, ne tolse la vecchia borsa in cuoio, la aprì e per poco non gli venne un capogiro: la borsa conteneva cinquanta scudi. Gasparino li depose sul prato davanti a sé, per ripetere l'esperienza, si augurò di nuovo che la borsa si riempisse un'altra volta; altri cinquanta scudi risposero alla chiamata. Allora il nostro pellegrino comprese che aveva ricevuto una borsa magica e il suo primo pensiero fu di correre a restituirla alla giovane contadina; poi pensò che, avendola trovata egli stesso, aveva il diritto di approfittarne per qualche giorno. Fece quindi apparire un altro mucchietto di scudi i cui riflessi dorati lo facevano impazzire dalla gioia. Inconsciamente, si mise a cantare a squarciagola, saltando e sgambettando come un capriolo.
Per poco quella stravaganza non gli costò cara. Attirata dal baccano, una banda di ladri che viveva nascosta nei boschi venne a vedere cosa succedeva e, scorgendo un uomo solo che ballava davanti a un mucchio d'oro, quei malfattori si precipitarono. A quella vista Gasparino sudò freddo e smise di cantare. Perdendo completamente la testa e senza capire cosa facesse, afferrò il fischietto di corno e cominciò a fischiare disperatamente. Nuovo prodigio! Dal folto del bosco sbucarono d'improvviso scorte di soldati armati che si gettarono sui banditi, li legarono stretti e li diressero verso la prigione di Bellinzona. Il fischietto non era meno stregato della borsa.
«Così sì che andiamo bene», pensò Gasparino, rimesso dall'emozione.
Senza perder tempo filò diritto a Lugano. La sua prima visita fu, come aveva deciso, per la Madonna delle Grazie; la pregò con fervore e riempì la bussola dei begli scudi d'oro. Poi corse dal sarto più rinomato e si comperò un bell'abito ricamato da gentiluomo. Finalmente dopo aver completato le sue compere con un paio di magnifici stivali e un cappello piumato, pranzò da gran signore all'Albergo di Venezia e se n'andò a far bella mostra di sé sul lungolago. Fu là ch'egli incontrò la carrozza della bella Ariana, figlia del conte Roggero, venuta anch'essa a Lugano per farsi ammirare.
Questo conte Roggero, feudatario tremendo la cui crudeltà ha lasciato così tristi ricordi nel Malcantone, abitava ordinariamente a Luino, ma possedeva parecchi castelli, uno dei quali sorgeva proprio dove oggi si innalza la chiesa di Castelrotto. La sua unica figlia Ariana era degna di lui. La natura l'aveva colmata fisicamente, ma altrettanto mal dotata moralmente. Cattiva al punto di assistere con piacere al supplizio dei contadini che suo padre faceva impiccare per il minimo motivo, essa era inoltre arrogante e orgogliosa. Benché fosse figlia di un semplice conte, rivendicava il titolo di principessa e nessuno avrebbe osato rifiutarle quel nome usurpato, poiché una simile audacia sarebbe stata atrocemente punita. Da parecchi anni era in età da marito, ma si capisce che i pretendenti non avessero premura di presentarsi; vi sono donne delle quali val meglio ammirare il ritratto da lontano piuttosto che subire la tirannia da vicino.
Gasparino ignorava tutto ciò. Tanto che, non appena ebbe intravisto la principessa, se ne innamorò pazzamente. Da parte sua Ariana fu colpita da quel giovane gentiluomo ch'essa non aveva mai incontrato prima di allora. Se lo fece presentare e accettò un sontuoso rinfresco ch'egli le offrì. Vedendolo spendere a quel modo senza contare, essa concluse che doveva essere molto ricco e che sarebbe stato un eccellente marito per lei. Gli disse perciò che suo padre si sarebbe stimato felice di potergli offrire ospitalità nel suo castello, e non ebbe bisogno di insistere molto per convincere Gasparino a prender posto accanto a lei nella sua carrozza. Il cocchiere sferzò i cavalli che partirono al trotto verso il Malcantone.
Gasparino e Ariana si fecero molti complimenti, lui con la sincerità un po' rozza di un buon ragazzo che non vede più in là della punta del naso, lei con l'abilità ipocrita di una gattamorta che vuole sfruttare una facile preda.
Quand'ebbero oltrepassato Magliaso, Ariana cominciò ad estasiarsi per le ricchezze del suo invitato e gli domandò se le avesse avute in eredità. Lui, tutto fiero di far parte del suo segreto a una principessa, le confidò il mistero, l'esortò perfino a provare la magica borsa. Povero grullo! La bella si meravigliò, ma non si lasciò più sfuggire la borsa di mano. Appena arrivati davanti al castello del padre, essa smontò lesta dalla carrozza, entrò in casa correndo e chiuse la porta in faccia al suo ammiratore.
Gasparino bussò raddoppiando i colpi, ma ci si burlò di lui e si finì per minacciarlo. Sopravvennero infatti le guardie del conte Roggero che a calci e a pugni costrinsero l'importuno a svignarsela. Il malcapitato errò gemendo la notte intera dalle parti di Croglio, tutto pesto e indolenzito. Al mattino si recò a pregare la Madonna del Piano e là ebbe un'ispirazione improvvisa.
«Sono uno stupido!» esclamò. «Ho il mezzo di rientrare in possesso
della borsa che quella scellerata mi ha rubato. Non ho forse il fischietto?».
Lo portò alle labbra e si mise a fischiare con tutte le forze. Centinaia di soldati sbucarono da ogni dove e si misero al suo servizio. Egli partì con loro, diede l'assalto al castello del conte Roggero e in breve fu padrone del luogo. Ariana fu rintracciata nei suoi appartamenti, livida e tremante. Ma quando si vide davanti lo spasimante del giorno prima, si riprese di colpo:
«Ma come!» esclamò. «Siete stato voi a farci tanto paura! Perché tutto
questo baccano?».
«Briccona,» ribatté Gasparino, «mi avete rubato la mia borsa, mi avete
fatto cacciare dal castello come un brigante e osate chiedere i motivi della mia collera?».
«Tutto qui?» riprese l'altra. «Ma non c'è di che allarmarsi, veramente. lo non ho mai avuto l'intenzione di derubarvi. Volevo semplicemente mostrare la borsa a mio padre e, nella fretta, ho chiuso la porta del castello senz'avvedermene, ciò di cui mi scuso. Quanto alle nostre guardie, se esse vi hanno mandato via brutalmente, è un malinteso che sono la prima a deplorare».
E Ariana fu di nuovo tutta moine e dolci sorrisi e complimenti per quel povero semplicione che di nuovo si lasciò abbagliare dalle belle parole della principessa.
«Oggi stesso» essa disse per finire «vi autorizzo a chiedere la mia mano a mio padre. Vi amo con tutto il cuore e vi ammiro più di quanto possiate credere. Ma che bei soldati avete qui e come avete fatto in fretta a radunarli!».
Gasparino non poté trattenere uno scoppio di risa:
«Tutto il segreto della mia potenza sta in questo fischietto» disse.
E raccontò ad Ariana tutte le sue avventure. Questa fremé di collera pensando che per poco non aveva sposato un giovane da nulla, un contadino che non possedeva nemmeno tre spanne di terra al sole. Si guardò però bene dal lasciar trasparire il suo pensiero; al contrario essa si mostrò ancora più dolce e carezzevole.
«Ma è proprio vero» domandò «che basta soffiare in questo fischietto per far accorrere un'armata? Non crederò a questo prodigio prima di averlo constatato io stessa».
«Provate dunque!» fece Gasparino ch'era davvero più asino dell'asino di Cureglia. E porse il fischietto.
Fu presto fatto. La principessa si mise a fischiare, a fischiare a perdifiato a rischio di spolmonarsi. E ogni volta comparivano intere bande di uomini armati. Potete facilmente indovinare il seguito. In un batter d'occhio le truppe di Gasparino furono annientate ed egli stesso non fu salvo che grazie a una fuga precipitosa. Fortunatamente aveva le gambe più agili del comprendonio.
Disperato andò vagando per i campi con agli occhi certi lucciconi grossi come piselli, senza sapere che cosa rimpiangere di più, se di aver perduto il suo magico potere o di aver conservato la sua balordaggine. Stavolta però il suo stupido amore era morto davvero; Gasparino rinunciava alla principessa, ma avrebbe voluto ricuperare la borsa e il fischietto. Dopo tutto gli oggetti non gli appartenevano e onestamente egli era tenuto a restituirli alla contadinella di Claro. Che fare?
Il suo vagabondare l'aveva condotto in un prato fiorito nei pressi di Banco. Tutti sanno che a quei tempi le fate del Malcantone si davano talvolta appuntamento a Banco e sedevano in tondo in quel luogo magnifico. Per questo gli alberi del prato delle fate erano tutti più o meno incantati e Gasparino, sempre tanto imprudente quanto ignorante, arrischiava sul serio di impararlo a sue spese o a suo profitto, secondo il caso.
Rotto dalle emozioni, mezzo morto di sonno poiché la notte precedente non aveva chiuso occhio, si lasciò cadere sotto un melo e si addormentò. Un colpo sulla testa lo svegliò di soprassalto; una mela si era staccata dalla pianta e gli era caduta addosso. Quasi nello stesso istante tre altri frutti rotolarono sul prato. Gasparino guardò quelle mele. Erano rosse come gamberi cotti e quanto mai appetitose. Aveva una fame da lupo, ché dopo il festino di Lugano non aveva più toccato cibo, e senza riflettere addentò avidamente le quattro mele una dopo l'altra.
Aveva appena terminato che sentì uno strano prurito sulla punta del naso. E di colpo il naso cominciò ad allungarsi, di un piede, di due piedi, di tre piedi, di quattro piedi: un piede per ogni mela!
Egli si alzò mogio mogio e costatò che la sua appendice nasale gli scendeva fin sotto i ginocchi.
«Questa è un'altra storia» pensò. Ma da due giorni a quella parte ne aveva viste tante che si afflisse solo a metà; anzi, senza troppo riflettere, colse ancora quattro di quelle mele rosse e le mise nella sua tasca di destra.
Poi si allontanò. Ma dove andare? Non poteva tornare a Ghirone, ove nessuno l'avrebbe riconosciuto con quel naso caudato. E poi stentava maledettamente a camminare con quell'inciampo tra i piedi. Non fece perciò che un centinaio di metri prima di coricarsi sotto un altro melo. I frutti di quest'ultimo erano gialli, di un giallo ancor più dorato degli scudi della famosa borsa. Gasparino avrebbe pur dovuto diffidare delle mele di quella regione, ma disse tra sé e sé:
«Dopo tutto, a meno che mi vengano le orecchie d'asino, non vedo che cosa potrebbe ancora capitarmi. Mangiamo una di queste mele!».
E se le mangiò davvero, benché esitando un pochino. D'improvviso laggiù, sulla punta del naso, sentì di nuovo uno strano formicolìo; il naso diminuì di un piede. Gasparino non se ne adontò. Mangiò ancora tre mele e la sua faccia ricuperò l'aspetto normale. In quel singolare paese i nasi si allungavano e si accorciavano di un piede per ogni mela. Bastava non sbagliarsi nei calcoli quando si mangiavano quei frutti.
«Stavolta bisognerà che mi fermi qui» pensò Gasparino. «Altrimenti il naso mi entrerà nella testa!».
Si arrampicò sulla pianta, colse quattro di quei frutti stregati, li mise accuratamente nella sua tasca di sinistra e scese tutto allegro verso Beride, canticchiando un gaio ritornello che gli aveva insegnato lo zio Bonifacio. Le mele rosse, allungandogli il naso, gli avevano forse messo un po' di sale nel cervello? Non lo so, ma certo è che un'idea gli attraversò improvvisamente la mente ...
Quella stessa sera uno sconosciuto si presentò al castello del conte Roggero e consegnò alla guardia di servizio un piccolo involto per la principessa Ariana.
«Il mio signore, il marchese di Pontirone» disse «manda questa modesta offerta alla nobile figlia del conte Roggero in segno di omaggio alla sua incomparabile bellezza».
Appena in possesso del pacchetto accompagnato da parole tanto gentili, la principessa corse a rinchiudersi nella sua camera per aprirlo; conteneva quattro magnifiche mele di un rosso sfolgorante ciò che la fece sorridere felice. Voi non ignorate che, a quell'epoca, offrire a una giovane mele rosse equivaleva a una dichiarazione d'amore. E Ariana, fino a quel giorno disdegnata da tutti eccetto che da quel povero grullo d'un Gasparino, si sentiva lusingata di aver attirata l'attenzione di un marchese, del quale a dir il vero essa udiva il nome per la prima volta.
In quel momento suonò per la cena. Ariana non volle portare in tavola le sue mele poiché, golosa com'era, preferiva mangiarsele da sola. Le nascose quindi sotto il cuscino del suo letto, ripromettendosi di gustarle più tardi a testa riposata.
Terminata la cena, durante la quale stupì tutti i presenti con un brio inusitato, essa non tardò a risalire nella sua camera col pretesto di cascare dal sonno. Difatti si coricò subito; ma invece di dormire si fece un dovere di gustare le belle mele, fantasticando sul misterioso marchese di Pontirone. Quei frutti erano deliziosi davvero! A un tratto però essa avvertì come un malessere: sentiva un pizzicore molesto alla punta del naso e le sembrava che, sopra le coperte, uno strano oggetto le opprimesse lo stomaco. Vi portò la mano e gettò un grido d'orrore...
Un minuto dopo, tutto il castello era messo sossopra dagli urli della principessa. Ci si precipitò in suo soccorso e, quando si ebbe fatta luce nella sua camera, si vide che era lì in piedi, il volto inondato di lacrime più grosse di quelle del coccodrillo, e con un naso di quattro piedi che le scendeva fin sulle pantofole. Il conte Roggero era pazzo di furore e minacciava d'impiccare tutti, dicendo che gli avevano stregata la figliuola. Finalmente egli fece apparecchiare tre carrozze, con l'incarico di ricondurre il più abile medico di Como, di Milano e di Pavia.
I tre medici arrivarono uno dopo l'altro. Visitarono a lungo il naso della principessa, intavolarono discussioni animatissime a base di parole latine. Poi con non minor sapienza prepararono i rimedi: pomate di rabarbaro, linimenti allo strutto di tasso, cataplasmi di cipolle crude, senapismi e molte altre cose ancora. Non si può dire che questi medicamenti non avessero effetto, poiché in pochi giorni il naso diventò più rosso di un pomodoro; ma non diminuiva di lunghezza ed accennava a gonfiarsi. Il conte Roggero, sempre irato, ordinò di impiccare il medico di Pavia e promise agli altri due di far loro subire la stessa sorte se lo stato di sua figlia non fosse migliorato.
Mentre si stava preparando il patibolo, qualcuno venne a dire al conte che un mago africano, di passaggio a Lugano, asseriva di poter guarire la principessa. Roggero mandò immediatamente a prenderlo; avete indovinato che il mago non era altri che Gasparino munito di un copricapo a punta e con la faccia impiastricciata di fuliggine per essere irriconoscibile. Egli volle che si facesse grazia ai medici e che fossero rimandati a casa loro. Poi chiese di essere lasciato solo con l'ammalata e dovette fare uno sforzo per trattenere il riso, vedendola gratificata di una specie di salsiccia con tutte le sfumature dal rosso al violaceo.
«Scommetto» disse alla principessa contraffacendo la voce «che il vostro male vi è capitato dopo aver mangiato delle mele?»
«Sì, purtroppo!» rispose Ariana
«In questo caso state tranquilla. Guarirvi sarà un gioco da bambini: mangiate questa mela».
E le tese una mela gialla che naturalmente la principessa mangiò senza farsi pregare. Oh, meraviglia! Il naso diminuì subito di un piede.
«La cosa mi stupisce» riprese il saggio «poiché il vostro naso avrebbe dovuto riprendere il suo aspetto abituale. Nobile principessa, non vi offendete per quanto vi dirò, perché è per il vostro bene. Sappiate dunque che, quando uno è stato stregato, non può guarire completamente se non ha la coscienza pulita. Fate il vostro esame e vedete se per avventura non ritenete qualcosa che non vi appartiene».
Ariana arrossì, poi si decise a tirar fuori la borsa dal cassetto ove l'aveva nascosta:
«C'è questa brutta borsa» confessò «che si trova, non so come, qui nella mia camera».
Il mago prese l'oggetto, lo mise in tasca e diede un'altra mela alla principessa. Il naso si raccorciò ancora di un piede.
«Pazienza!» disse il mago, «a poco a poco ci riusciremo. Fate il giro della vostra memoria; voi tenete sicuramente ancora presso di voi qualche cosa che non vi appartiene ed è questo che impedisce al rimedio di agire a fondo». «È forse questo vecchio fischietto di corno che un qualche imbecille ha dimenticato qui!» rispose Ariana a denti stretti.
Il mago prese il fischietto, le porse una nuova mela e riprese la sua voce naturale:
«L'imbecille sono io, Gasparino da Ghirone; ma sappiate, principessa, che non bisogna abusare degli imbecilli, poiché un giorno o l'altro finiscono per diventare intelligenti. Ora tutto è per il meglio e noi siamo pari. Addio, mangiate ancora questa mela e, se volete un consiglio, fatevi regalare una dozzina di fazzolettoni!».
Disse e sparì.
Due e uno fanno tre. La principessa aveva mangiato solo tre mele e Gasparino se l'era svignata. Lo si cercò invano, e del resto sarebbe stato imprudente attaccar brighe con lui, ora che aveva ritrovato la sua potenza. Ariana restò sfigurata e, orgogliosa come era, d'allora in poi ricusò di comparire in pubblico. A prestar fede all'erudito italiano Ovidio Cacciapiatti che scrisse nel sedicesimo secolo un dotto trattato sopra i nasi straordinari, «De nasis prodigiosis», il naso della principessa Ariana misurava un piede manuale cioè trentaquattro centimetri circa. Si capisce che la gente del Malcantone abbia affibbiato alla figlia del conte Roggero il titolo di «principessa Nasone» sotto il quale essa è conosciuta nella leggenda.
Gasparino si affrettò a restituire la borsa e il fischietto alla graziosa contadinella e approfittò dell'occasione per chiedere la sua mano. La brava ragazza che diffidava del denaro e della potenza a cagione delle disgrazie che causano nel mondo, prese i due oggetti e li seppellì in un nascondiglio dal quale non uscirono più; accettò invece il cuore di Gasparino. Si sposarono, lavorarono e furono felici. Si dice che i loro discendenti vivono ancora a Claro ove godono la stima di tutti.
I secoli sono passati, e le fate non vengono più a sedersi nel prato di Banco. Ma si dice che le sere di temporale, quando romba il tuono e il cielo è solcato di lampi, si scorge verso Beride un fantasma di donna, dagli abiti antiquati e dal viso deforme, che va errando da un albero all'altro come se cercasse qualche cosa a terra: è la principessa Nasone ancor sempre in cerca della quarta mela che potrebbe raccorciarle il naso e che essa non ha ancora trovato...
Louis Delcros, Ore in famiglia, 1953, p. 103-108